Professione
21 Marzo 2023                                      Animale come interlocutore diretto del paziente oppure come  ponte comunicativo con il terapeuta: due i percorsi della pet therapy, pratica  che risale a un lontano passato. La storia della sua evoluzione.            

                                      Tutto parte da lì, la definizione ormai arcinota parta da lì: da uno psichiatra infantile, Boris Levinson, e dal suo cane, Jingle.  Siamo nell’ormai lontano 1953, anno in cui il medico, casualmente, ebbe modo di  verificare con i suoi occhi in che misura Jingle fosse d’aiuto nelle sedute con  un piccolo paziente autistico. In presenza del cane, infatti, il bambino era  meno riottoso ad aprirsi al terapista. Quasi l’animale catalizzasse le  dinamiche sociali, altrimenti limitate dallo spettro autistico.    Da quella  prima esperienza, Levinson passò alla formalizzazione delle sue teorie nel libro  The Dog as Co-Therapist, pubblicato nel 1961, dove definì  il cane un co-terapeuta. Risale infine al 1969 l’elaborazione della sua “pet  oriented child psychotherapy” incardinata sul rapporto bambino-animale. La  Pet Therapy, così, si è conquistò la definizione in uso anche oggi.    Ma se Levinson fu il primo a ricorrere alla terminologia ‘Pet Therapy’,  è vero anche che le sue formulazioni non nascono certo dal nulla, ma si fondano  piuttosto su un substrato decisamente ricco, composito e stratificato nel tempo.  Il ricorso agli animali come supporto delle cure mediche, infatti, è  antichissimo.            
                                      Sorvolando sulle pratiche dei popoli più antichi come gli egizi,  possiamo con sicurezza affermare che il primo vero approccio terapeutico fu  adottato nel Belgio del IX secolo, anche se poi fu solo nel 1792 che lo psicologo  infantile William Tuke cominciò a curare pazienti con disturbi mentali, con  conigli, polli, anatre e oche, che popolavano il giardino.    Successivamente, nel 1867, fu la volta della Germania:  qui a Bielefeld, vennero introdotti cani, gatti e altri piccoli animali da  allevamento come parte integrante dei trattamenti di recupero degli  epilettici. Per poi estendere la pratica terapeutica anche a pazienti  affetti da altre patologie.    Più o meno nello stesso periodo si ‘scoprì’ anche il valore  dell’ippoterapia. Siamo nel 1875, infatti, quando il medico francese  Chessigne iniziò  a prescriverla a pazienti con problemi neurologici, ritenendola un’ottima  terapia per favorire il recupero dell’autocontrollo e dell’attività muscolare.    Questa intuizione, molti anni dopo, ebbe una conferma significativa  quando, nel 1952, Lis Hartel, colpita 9 anni prima da poliomielite invalidante,  si classificò seconda nella gara di dressage alle Olimpiadi di Helsinki.     
Pet therapy nelle Guerre mondiali
Già dopo il primo conflitto mondiale, nel 1919, negli Stati Uniti, presso il St. Elisabeth’s Hospital a Washington, vennero introdotti dei cani per curare i pazienti che, in conseguenza del periodo bellico, avevano riportato gravi forme di depressione e schizofrenia. Successivamente, nel 1942, sempre negli States, fu realizzato in un ospedale di New York dedicato ai feriti di guerra con traumi emozionali, il Parwling Army Air Force Convalescent Hospital.
La pet therapy in Italia
Nel nostro Paese la pet therapy arriva nel 1987: se ne parla per la prima volta in un Convegno Interdisciplinare a Milano su “Il ruolo degli animali nella società odierna”. Dopo tre anni, nel 1990, nacque il C.R.E.I. il primo centro di “Ricerca Etologica Inter-disciplinare per lo studio del rapporto uomo-animale da compagnia” seguito nel 1997 dalla S.I.T.A.C.A. (Società Italiana Terapia e Attività con Animali). La vera svolta si ha però realmente nel 2009 con l’istituzione del Centro di Referenza Nazionale per gli Interventi Assistiti con gli Animali.
Pet therapy, il ruolo dell’animale
   Nell’ambito della pet therapy, l’animale può giocare due diversi  ruoli: quello di interlocutore diretto che sollecita il paziente a interagire, per  esempio tramite il contatto fisico. Oppure può essere un ponte comunicativo nel  rapporto tra paziente e terapeuta.     E’ quindi fondamentale che l’animale abbia una disposizione  positiva. Per questo è necessaria una costante valutazione da parte del  veterinario che ne monitori lo stato di salute e i livelli di stress, così da  decidere se possa o meno proseguire nel suo ruolo di co-terapeuta.            
Valutazione del benessere in un gruppo di cani co‐terapeuti - Università di Sassari -Tesi di dottorato del dott. Stefano Visco.– anno accademico 2008-2009 -
Dalla zooterapia alla Pet Therapy: una relazione inter-specifica- Giordana Pagliarani Università “La Sapienza”, Roma
Immagine d'apertura: Clemente de Il Passo dell'asino
TAG: IAA, PET THERAPY, PSICOTERAPIA, MEDICO VETERINARIOSe l'articolo ti è piaciuto rimani in contatto con noi sui nostri canali social seguendoci su:
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