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Animali da Compagnia

29 Luglio 2022

Vaccini, mai solo per abitudine. Ecco perché: ce lo spiega Paola Dall’Ara

Assurti sempre più all’onore delle cronache, i vaccini oggi continuano ad alimentare polemiche e diatribe tra fautori e detrattori. Anche in veterinaria lo scetticismo serpeggia. Il punto di vista di Paola Dall’Ara, docente dell’Università degli Studi di Milano.

di C. Ignaccolo


Vaccini, mai solo per abitudine. Ecco perché: ce lo spiega Paola Dall’Ara

“Il problema dei vaccini è che sono vittime del loro stesso successo”. Sembra una boutade, ma Paola Dall’Ara, professoressa di immunologia veterinaria all’Università di Milano, non sta scherzando. La sua è una constatazione di un dato di fatto.

E con il tono pacato e sereno di chi ama il suo lavoro, prende atto di uno dei principali limiti che osteggiano il mondo vaccinale.

“È infatti grazie ai vaccini – spiega – che molte malattie sono state debellate del tutto (si pensi alla peste bovina eradicata nel 2011 o al vaiolo scomparso nel 1980) e molte restano circoscritte (come nel caso del morbillo). E questo ha fatto sì che oggi non ci si ricordi più di quanto certe infezioni fossero pericolose. Con la conseguenza che la paura che esse prima incutevano è stata (paradossalmente) dirottata proprio sui possibili effetti collaterali dei vaccini, visti da qualcuno come ‘sostanze strane’, in quanto inoculati in soggetti sani”. Tuttavia, l’ostruzionismo di cui sono spesso vittima i vaccini non ha solo cause intrinseche alle loro potenzialità, si affretta ad aggiungere la professoressa. “L’altro grosso problema – va diretta al punto – è che sul tema tutti hanno da esprimere un parere, senza avere per forza reali conoscenze mediche e scientifiche. E questo vale tanto per la medicina umana quanto per la veterinaria”.

Con i social che fanno da cassa di risonanza, spesso un po’ troppo scordata…

Appunto. Come è successo, per esempio, a proposito del rapporto di causa-effetto individuato surrettiziamente da qualcuno tra vaccini e autismo. A monte c’era la miglior bufala del 20° secolo, confezionata ad hoc, a mero scopo di lucro, da un medico inglese senza scrupoli, che voleva screditare il vaccino trivalente morbillo-rosolia-parotite, per dare sbocchi commerciali al suo vaccino monovalente appena brevettato. La gente ci è cascata. Prima nel mondo anglosassone (dove si è registrato un crollo delle vaccinazioni e un’impennata dei casi di morbillo). E a distanza di anni, anche da noi. Per questo non mi stancherò mai di ribadire l’importanza di verificare le fonti e di valutarne la fondatezza scientifica. Come spiego nel capitolo 5 del mio libro Vaccini e vaccinazioni degli animali da compagnia, i no vax non sono molti. In compenso fanno tanto rumore, continuando ad autoalimentare, all’interno della loro piccola comunità chiusa, notizie false o solo parzialmente vere. E purtroppo, con citazioni assolutamente generiche o addirittura fuorvianti, fanno presa sulle persone dubbiose. Specialmente quando riescono a mascherare la propria insipienza con la maschera di una finta cultura.

Inevitabilmente, proprio come esistono i no vax in umana, ci sono persone che sostengono la pericolosità dei vaccini anche per gli animali. Per sconfiggere eventuali diffidenze in ambito veterinario, qual è il suo consiglio?

Di lavorare al meglio sulla comunicazione rivolta ai proprietari. Il vaccino non va semplicemente inoculato. Va essenzialmente spiegato, con tutto il corredo di possibili rischi e benefici correlati: di fatto è un medicinale, non dimentichiamolo. Per questo ho dedicato un capitolo alla visita prevaccinazione, vista come momento di dialogo e formazione.

A proposito del libro, come mai ha dedicato un box alla filariosi?

Perché ho subodorato che in merito servisse forse un po’ di chiarezza. Fin troppo spesso, infatti, ho sentito definire ‘vaccino’ il trattamento preventivo contro la filariosi. Ma per la filariosi non c’è un vaccino ma un trattamento farmacologico contro le forme larvali, che va somministrato periodicamente per via orale o in un unicum per via iniettiva. Probabilmente è proprio il fatto che possa venire inoculato a creare confusione. Il vaccino è un’altra cosa: ovvero la somministrazione di un microorganismo, o di parte di esso, che va a stimolare la risposta immunitaria del corpo. In pratica è un trucco che fa credere all’organismo di trovarsi davanti al patogeno e lo porta a reagire di conseguenza, montando una risposta immunitaria specifica e preparandolo così per eventuali attacchi futuri.

Torniamo ai vaccini tout court: in caso di pazienti particolari, affetti per esempio da patologie croniche come la dermatite atopica o il diabete, la vaccinazione è consigliata?

Parlando di vaccinazione, per definizione facciamo riferimento a un trattamento da fare su pazienti sani. Al cospetto di soggetti (siano persone o animali) con una malattia cronica non è possibile parlare di individui sani. La questione va quindi impostata diversamente. Andrà cioè valutato un fattore essenziale: lo stile di vita condotto dal soggetto in questione. Se infatti la malattia cronica è tenuta sotto controllo e l’animale conduce una vita normale, sarà a rischio contagio per alcune malattie. È a questo punto che entra in scena la bravura del veterinario cui spetta il compito di valutare, caso per caso, rischi e benefici nel fare o meno la vaccinazione. Ovviamente, se opta per il sì, dovrà trattare il soggetto tenendo sempre conto della sua cronicità. Anche al momento di un eventuale richiamo, sarà necessario agire cum grano salis, così da non gravare sul paziente, decidendo di non ripetere annualmente i vaccini che garantiscono una protezione di lunga durata, e somministrare annualmente solo quelli che richiedono necessariamente un booster ogni anno, come per esempio il vaccino contro la leptospirosi. Serve insomma liberarsi dal pregiudizio che se non si propone la vaccinazione annuale si perde la protezione (e il cliente...). La frequenza va rimodulata in base alla reale copertura temporale offerta dai vari vaccini. In altri termini, quello che si dovrebbe fare è una vaccinazione tagliata su misura per ogni singolo paziente, abbandonando quella fatta per abitudine. I pazienti non sono tutti uguali: per età, dimensioni, stile di vita. Occorre valutarli di volta in volta, specie nel caso di animali non sani ma che potrebbero trarre beneficio dalla vaccinazione.

Ha citato il vaccino contro la leptospirosi, quali oggi le potenzialità delle formulazioni in circolazione?

Innanzitutto, ci tengo a ribadire che quello contro la leptospirosi per noi italiani è un vaccino core, quindi altamente raccomandato, vista la diffusione dell’infezione nel nostro paese. E visto il mutamento delle abitudini dei nostri cani, che rischiano molto più di una volta di venire in contatto con fonti di infezione come pozze d’acqua stagnante con depositi di urina infetta di piccoli roditori o di grandi ruminanti che fungono da ospiti di mantenimento della malattia. Ad oggi le formulazioni in circolazione sono di tipi diversi: L2 (contro due leptospire), L3 (contro 3) e L4: ovviamente è quest’ultimo tipo a offrire una protezione di più ampio spettro. Dal momento che i sierogruppi sono molti di più, l’auspicio è quello di arrivare alla formulazione di un vaccino contenente un antigene universale. Ad oggi, però, l’unica cosa da fare è far comprendere il valore core di questo vaccino e proporre la formulazione che garantisca la protezione più elevata.

In molti agitano lo spettro delle reazioni avverse, come ulteriore disincentivo alle vaccinazioni: può fare chiarezza?

La prima cosa da dire è che oggi le reazioni avverse ai vaccini sono molto rare e comunque quantificabili. Basta consultare il bugiardino per averne un quadro esaustivo, come per tutti gli altri medicinali. E poi vorrei fare subito una distinzione. Alcune reazioni, come la febbre o la letargia, a mio avviso negative non sono. Anzi: sono il segnale che la vaccinazione sta funzionando, e non solo perché con le temperature elevate alcuni microorganismi smettono di replicarsi, ma anche perché la febbre è uno stimolante del sistema immunitario. E non basta: il malessere che subentra quando ci ammaliamo (per esempio quando abbiamo l’influenza) riduce al minimo i dispendi energetici dell’organismo con un’unica eccezione: quella del sistema immunitario, appunto, che si ‘concentra dunque su se stesso’. Una condizione definita sickness behaviour, e che si può verificare anche dopo una vaccinazione, con gli stessi effetti positivi. Anche la reazione nel punto di inoculo (arrossamento, gonfiore, prurito) non è altro che il segnale dell’attivazione di una reazione positiva di difesa. A patto, ovviamente, che si tratti di una condizione transitoria e che non degeneri. Penso per esempio a un granuloma o peggio ancora al sarcoma al punto di inoculo, l’incubo di molti veterinari quando devono vaccinare un gatto: questa è, infatti, la più grave reazione avversa vaccinale riportata nella specie felina, dove si ritiene che un’infiammazione intensa e cronica possa stimolare la trasformazione maligna delle cellule nel sito di inoculo. La più grave sì, ma per fortuna anche molto rara (si parla di 1 caso ogni 10.000 dosi vendute) e, soprattutto, non ascrivibile ai soli vaccini, in quanto qualsiasi sostanza in grado di causare infiammazione persistente nei tessuti di gatti sensibili è in grado di farlo.  

Questo cosa comporta, in ottica vaccinale?

Ciò non significa che l’animale non vada vaccinato, ma che è opportuno adottare accorgimenti ad hoc. Come l’iniezione sottocutanea piuttosto che l’intramuscolare, o, come da molti consigliato, la scelta di un vaccino senza adiuvanti (in modo da contenere la risposta infiammatoria locale). Utile anche non utilizzare mai stesso lo stesso punto di inoculo più volte di fila (ricorrendo a un promemoria sul libretto vaccinale), non somministrare vaccini freddi (meglio tirali fuori poco prima dell’uso e scaldarli un po’ tra le mani), e non vaccinare più nell’area interscapolare da dove sarebbe più complesso asportare radicalmente l’eventuale massa tumorale: meglio optare per la regione laterale dell’addome o del torace. Infine – e torniamo a quanto detto in precedenza – vaccinare in base alle reali esigenze dell’animale, distinguendo tra vaccini core e vaccini non core. Se un gatto fa vita domestica sedentaria e casalinga, senza uscire mai e senza contatti con gatti che escono, allora si può evitare di vaccinarlo per esempio contro la FeLV (tra i vaccini uno di quelli più sospettati per il sarcoma al sito di inoculo).

Se febbre e letargia non vanno considerate come reazioni negative, lo shock anafilattico – invece – lo è. Come gestire l’eventualità che si manifesti?

Premesso che siamo al cospetto di un evento molto raro (parliamo anche in questo caso di 1 caso su 10.000 dosi vendute), il mio consiglio non è niente di trascendentale, solo buon senso e scrupolo professionale: per scongiurare ogni rischio, il veterinario dovrebbe adottare le medesime precauzioni che si prendono in umana. Ovvero chiedere ai proprietari dell’animale vaccinato di non allontanarsi almeno per la mezz’ora successiva alla vaccinazione, e poi di monitorarlo per le 24 ore successive (alcune reazioni sono infatti ritardate nel tempo). Purtroppo, sono personalmente a conoscenza di casi di shock anafilattico, seguiti da esito mortale, che si sarebbero potuti trattare con successo con un adeguato monitoraggio del paziente e un intervento veterinario tempestivo. Molto più comune dello shock anafilattico è invece il collasso post-vaccinazione che mima lo shock anafilattico, senza però l’intervento del sistema immunitario e il rilascio di istamina (proprio per questo può verificarsi già alla prima dose, senza bisogno che l’organismo si sia precedentemente sensibilizzato, conditio sine qua non per lo sviluppo di una reazione allergica vera). L’animale, magari cucciolo o molto agitato, collassa per esempio a causa del semplice contenimento o per il dolore causato dall’iniezione in prossimità di un nervo. Anche in questo caso, lo strumento salvavita numero uno è l’intervento tempestivo del veterinario.

Parlando di lotta alla resistenza antimicrobica, quale può essere oggi il ruolo dei vaccini?

Semplice, permettono di agire sulla leva della prevenzione. La resistenza antimicrobica nasce da un abuso degli antimicrobici, spesso prescritti senza aver individuato il patogeno o essersi accertati della sua sensibilità all’antimicrobico scelto. I vaccini veterinari agiscono a monte, sia contro le infezioni virali, cui a volte va associata una terapia antibiotica per eventuali infezioni batteriche secondarie, sia contro quelle batteriche (come la leptospirosi, per esempio), fungine o da protozoi. Perché vede, in ambito veterinario, la platea dei microbi per cui sono stati prodotti vaccini è più ampia che in umana.

A proposito di prevenzione, quest’anno sono venute alla ribalta, in seguito all’ingresso dei profughi dall’Ucraina, preoccupazioni legate alla rabbia. Qual è adesso il quadro della situazione?

Ad oggi, per fortuna, non si è avuta alcuna segnalazione di contagio, né di sospetto. Sembra che gli strumenti messi in campo stiano funzionando. Quando il tema profughi è venuto alla ribalta, non lo nego, è scattato l’allarme e si è sentito bisogno di un confronto. Da qui è nata l’idea del convegno che ho organizzato (lo scorso 8 aprile) quasi estemporaneamente in facoltà con il patrocinio del mio dipartimento (DIVAS) e della FNOVI. Le preoccupazioni principali erano innescate dalle deroghe approvate per consentire ai profughi di non separarsi dai loro animali. Infatti, prima della guerra, infatti, cani e gatti in ingresso in UE provenienti dall’Ucraina dovevano essere microchippati, vaccinati contro la rabbia e in possesso di una titolazione antirabbica positiva che ne attestasse la vaccinazione. Anche perché l’Ucraina è oggi il paese con il maggior numero di casi di rabbia segnalati negli animali domestici e selvatici, mentre il nostro Paese è indenne dal 2013. Per favorire l’introduzione di pet provenienti dall’Ucraina, la Commissione europea ha quindi dato la possibilità ai paesi membri di derogare quanto stabilito e l’Italia ha prontamente accettato questa richiesta. Su indicazione dell’IZSVe si è quindi provveduto a verificare il livello anticorpale degli animali in ingresso, per poi effettuare controlli nel tempo e richiedere un periodo di osservazione a destino per periodi diversi a seconda dell’esito della titolazione. Tuttavia, questo metodo comportava parecchi inconvenienti. Non ultimo il fatto che molti proprietari erano solo di passaggio sul nostro territorio e quindi non sarebbe stato facile reperirli in caso di esiti non adeguati delle analisi. A completamento di questa più che giusta richiesta, la mia proposta è stata allora quella di ricorrere, quando ritenuto opportuno dai veterinari di campo, alla vaccinazione antirabbica, meglio se con doppia inoculazione a 3-4 settimane di intervallo. Un po’ quello che si fa in caso di profilassi post esposizione in umana.

Ci sono state polemiche sul divieto d’ingresso stabilito dalle istituzioni italiane per gli animali dei rifugi ucraini. Sono precauzioni eccessive?

Assolutamente no. Io stessa mi sono adoperata perché la gestione degli animali fosse corretta e il loro ingresso sul territorio avvenisse in modo sicuro. Vede, la storia di questi animali è del tutto sconosciuta: ignorare potenziali rischi di contagio in nome di una fraintesa ‘accoglienza’ sarebbe solo controproducente. In situazioni emergenziali come quella innescata dalla guerra in Ucraina, adottare precauzioni non è cinismo, ma buon senso. Gli animali vanno sempre tutelati. Anche con il rigore. Ricordiamolo sempre: nell’interesse collettivo, la guardia non va mai abbassata.


Paola Dall’Ara, Professore associato presso il Dipartimento di Medicina veterinaria e scienze animali dell’Università degli Studi di Milano, è docente titolare dei corsi di Immunologia veterinaria, Malattie infettive degli animali da compagnia, Immunoprofilassi, Immunodiagnostica e Practical aspects of vaccinology.

TAG: FILARIOSI, INTERVISTA, INTERVISTA VET33, LEPTOSPIROSI, RABBIA, UCRAINA, VACCINI

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