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Camelidi

20 Gennaio 2023

Lama, alpaca e cavalli: animali fantastici e come curarli. A colloquio con Giulia Giovanelli

All’inizio furono i cavalli. Poi, fatta di necessità virtù, lama ed alpaca entrarono nel novero dei suoi clienti. A ciascuna specie le sue peculiarità ma un comune denominatore, imprescindibile: la necessità di gestire con coscienza gli antielmintici.

di Carmela Ignaccolo


Lama, alpaca e cavalli: animali fantastici e come curarli. A colloquio con Giulia Giovanelli

Nella vita- è risaputo – non si sa mai: l’imprevisto è sempre dietro l’angolo. Può capitare di tutto. Anche di ritrovarsi con un lama in giardino.
A parte l’iperbole, a Giulia Giovanelli – veterinaria altoatesina – è successo proprio qualcosa di simile, quando - fresca, fresca di laurea (alla Statale di Milano) - si affacciò come veterinaria ippiatra al mondo del lavoro.
Tanti cavalli, certo, tra i suoi pazienti, ma - in forma quasi surrettizia – ecco servito l’imprevisto: in fila, per ricevere le sue cure, cominciarono fin da subito a fare la loro comparsa pure lama e alpaca (e in numero ragguardevole, per giunta).
“E il problema - ci spiega la dottoressa Giovanelli – era (lo era allora, ma lo è anche adesso) l’impossibilità di dire no a chi mi chiedeva un consulto medico su lama ed alpaca.
Mentre infatti riuscivo facilmente a declinare le richieste di curare cani, gatti o bovini, indirizzando i proprietari a miei colleghi specializzati in questi animali, con i camelidi non era possibile. Non c’era nessuno che ne occupasse”.


©DeniseTratta

Non restava che fare di necessità virtù, allora...
Appunto. E così, un po’ perché mi sono vista messa alle strette, un po’ perché – lo confesso – ne ero professionalmente affascinata, ho iniziato a studiare fisiologia e patologia dei camelidi.

È stato complicato?
Sì, e anche oggi le difficoltà non sono scomparse del tutto. In primo luogo, perché la letteratura scientifica è scarsa, e quella esistente è spesso improntata sulla gestione di allevamento di gruppo e su una medicina per animali da reddito; in Europa, però, i camelidi vengono allevati per lo più come animali d’affezione e le aspettative diagnostiche e terapeutiche sono quindi pari a quelle che ci sono per i pet tradizionali. Ecco, quindi, che il veterinario deve saper trovare le risposte giuste.
Un altro problema, e non di poco conto, è la mancanza di pratica dopo la laurea. Un po’ penalizzante, direi.
E poi, va detto, lo stoicismo dei camelidi non aiuta...

In che senso?

Finché questi animali non raggiungono una situazione clinica veramente grave, non danno alcun segnale di stare male. Pertanto, quando poi si interviene ci si trova molto spesso davanti a una situazione disastrosa, in cui i margini di manovra e le probabilità di un esito positivo sono decisamente ridotti.

La formazione universitaria oggi cosa offre a chi volesse dedicarsi ai camelidi?

Ai miei tempi, quando frequentavo l’Università a Milano i camelidi non erano neanche nominati. Oggi qualcosa sta cambiando, so di alcuni Atenei in cui sono stati attivati dei corsi ad hoc. Tuttavia, una trattazione specifica e sistematica della specie non è ancora parte integrante dei programmi didattici.

Forse perché la popolazione di camelidi non è molto numerosa?
Tutt’altro. Tra lama ed alpaca ci sono moltissimi esemplari e non solo in Alto Adige. E parliamo di allevamenti di varie dimensioni: da quelli familiari a quelli molto grandi.
Anche le richieste di tirocinio che mi giungono da studenti in veterinaria di tutta Italia sono numerosissime, segno che l’interesse per questi animali è concreto e in aumento.
Bisognerebbe lavorare di più sull’offerta formativa.
Io ho cercato di dare il mio contributo organizzando nel 2019 un corso ECM sui camelidi sudamericani; l’idea era di bissare ma poi è arrivata la pandemia...

Nel futuro?
Non lo escludo affatto. La vera sfida sarà quella di trovare relatori ogni volta diversi, poiché non c’è un’ampia scelta di specialisti nel settore nemmeno a livello internazionale.

Appena laureata, tanto entusiasmo: Giulia incontra lama e alpaca per la prima volta. Quali peculiarità, fin da subito, hanno marcato la differenza rispetto alle nostre specie endemiche?
A parte la variabile climatica (parliamo di animali avvezzi ad altitudini di 3000, 4000 m s.l.m.) una delle principali connotazioni che caratterizza questi animali è che si tratta di ruminanti particolarmente efficienti, ovvero capaci di ricavare energia anche da una dieta estremamente povera e fibrosa. Molto più di quanto facciano i nostri bovini o i nostri ovini. Purtroppo, non è sempre facile farlo comprendere ai proprietari, che in alcuni casi si ostinano a somministrar loro mangimi concentrati composti da cereali ricchi di carboidrati fermentescibili: una vera follia.

Con quali conseguenze sull’animale?

Fermentazioni anomale, ulcere gastriche, lipidosi epatica, acidosi dei prestomaci (un rischio che riguarda anche i ruminanti nostrani). Non va mai dimenticato, infatti, che i camelidi utilizzano come fonte energetica gli acidi grassi volatili, prodotti di scarto della fermentazione della fibra, e quindi frutto di un processo metabolico lento. Fornire loro un’alimentazione che preveda vie metaboliche più veloci, porta ad un abbassamento del valore di pH fisiologico dell’ambiente prestomacale e seleziona la popolazione batterica, alterando quel perfetto microambiente che consente la digestione del foraggio. Gli esiti variano da subclinici a fatali a seconda dell’entità dell’errore alimentare.
Potremmo anche dire che sono animali talmente spartani da diventare delicati in un habitat diverso dal loro.

Lo stile di vita dell’animale può influire ulteriormente?
Senza alcun dubbio. Quando non siamo in presenza di una richiesta metabolica spinta, come nel caso di lama ed alpaca ‘da compagnia’, un’alimentazione ricca è ancora più controindicata. Non parliamo infatti di una vacca da latte che deve produrre 60 litri di latte al giorno e che quindi richiede un apporto nutrizionale tarato su questa esigenza.

Caratterialmente, i camelidi presentano sorprese?

Come dicevo, in caso di malessere sono decisamente meno istrionici (anzi direi per nulla) rispetto ai cavalli, capaci di mettere in piedi una sceneggiata anche solo per qualche crampo intestinale.
Nei confronti del proprietario/allevatore l’atteggiamento dei camelidi è in gran parte dettato dal modo in cui vengono cresciuti: se non si riesce a gestirli con equilibrio, c’è il rischio che sviluppino un attaccamento eccessivo verso l’uomo (con conseguenti comportamenti anche violenti); in questo caso parliamo di sindrome di Beserk.


Equidi e camelidi: due mondi distanti. Realtà del tutto inconciliabili con problematiche del tutto diverse?
Non sempre e meno spesso di quanto si creda. E sono contenta me lo abbia chiesto perché mi offre la possibilità di richiamare l’attenzione su un tema che mi sta a cuore e che coinvolge tutti i tipi di allevamento e tutte le specie di animali. Siano essi equidi, camelidi, bovini o ovini.
Mi riferisco all’antielmintico resistenza. Criticità meno nota di quella agli antibiotici ma ugualmente grave.
Purtroppo, e la questione è risaputa, da tempo si è consolidata l’abitudine di fare i trattamenti contro gli endoparassiti, protozoi e pluricellulari, alla cieca. Ovvero senza aver prima effettuato un esame coprologico, si ricorre ad un trattamento con cadenza più o meno fissa nell’arco dell’anno e il cui principio attivo è scelto spesso in base a criteri puramente economici (il meno costoso, quello in offerta in quel momento ecc.) o di comodità (come un prodotto non soggetto ad obbligo di prescrizione veterinaria).
Per il cavallo, per esempio, la scelta ricade quasi sempre sull’ivermectina, la molecola che costa meno. Anche se c’è il rischio che si buttino i soldi, perché magari non è efficace contro il parassita che ha il cavallo. Ma il problema principale è che- così facendo - si aumenta il fenomeno dell’antielmintico resistenza.
La cosa più grave è la velocità con cui questo fenomeno si amplifica. Infatti, con ogni singolo trattamento antiparassitario si promuove potenzialmente il fenomeno: tra i parassiti all’interno dell’ospite definitivo (camelide o cavallo) muoiono soltanto quelli sensibili al farmaco, mentre quelli resistenti sopravvivono, si moltiplicano e producono uova che verranno eliminate nell’ambiente attraverso le feci dell’ospite; in questo modo aumenta la popolazione resistente, a discapito di quella sensibile che viene progressivamente diluita.

Cosa va cambiato?
Bisogna entrare in una logica di trattamenti selettivi, da effettuarsi tenendo conto di diversi criteri (tipo e quantità di parassita coinvolto, età, peso..) e, soprattutto, solo se necessario. Evitare quindi di sverminare sistematicamente gruppi interi di cavalli adulti, dando per scontato che siano infestati, che lo siano con lo stesso tipo e quantità di parassiti.
L’esame delle feci dovrebbe essere di routine nel caso di nuovi arrivi in allevamento, prima che questi vengano uniti al resto del gruppo, soprattutto se condividono un pascolo, ed eventualmente trattati circa dieci giorni prima del congiungimento.
Solo alla luce di certe informazioni si potranno poi adottare le strategie di sverminazione selettive e più adeguate al caso. Per esempio, con gli strongili il trattamento sarà opportuno solo in presenza di alte cariche infestanti, mentre con vermi particolarmente patogeni, come i trematodi, l’intervento è giustificato anche in presenza di una carica bassa all’esame coprologico.

E la prevenzione?

Infatti: è proprio lì che si dovrebbe agire. Ad esempio, provvedendo a una rotazione annuale dei pascoli tra ruminanti e monogastrici in modo da interrompere il ciclo biologico dei parassiti. Infatti, se i terreni sono adibiti per anni alla stessa specie, i parassiti si perpetuano di generazione in generazione perché gli animali si reinfestano assumendo gli stadi larvali infestanti mangiando su un terreno contaminato da feci contenenti le uova che con il tempo si sviluppano a larve. Per lo stesso motivo è fondamentale l’igiene dei pascoli e dei luoghi in cui sono stabulati gli animali: le uova non hanno il tempo di diventare lo stadio larvale infestante.
Ancora, se l’assunzione del foraggio avviene in modo che non ci sia contatto tra alimento e feci (ad es. mangiatoie), non può avvenire la reinfestazione.

Basterebbe il buonsenso, quindi. Perché non si adottano automaticamente queste buone pratiche di gestione? Qual è l’ostacolo principale?
La pigrizia. Banalmente la pigrizia. Perché i risultati non sono immediati, ma visibili sul medio/lungo periodo. E molto spesso i proprietari non hanno voglia di imbarcarsi in queste ‘lungaggini’. Ed è qui – ne sono convinta – che noi veterinari dobbiamo fare la nostra parte, spiegando i benefici di questo approccio. Anche se molto spesso sarà una ‘scocciatura’, anche se i nostri sforzi risulteranno vani e anche se non ci sarà un ritorno economico.



La dottoressa Giulia Giovanelli si laurea nel 2016 all’Università degli Studi di Milano, con una tesi sul blocco del plesso celiaco nel cavallo per il trattamento dell’ileo postoperatorio. Dopo un periodo di attività in Germania presso una clinica per equini, torna nella sua regione, l’Alto Adige, dove da allora esercita come ippiatra, dedicandosi pure alla cura dei camelidi. Nel 2019, insieme al Dott. Alexander Tavella, direttore della sezione territoriale di Bolzano dell’Istituto Zooprofilattico Sperimentale delle Venezie, organizza un corso ECM per veterinari dal titolo "South American camelids, these strangers".

TAG: ALPACA, ANTIELMINTICO RESISTENZA, INTERVISTA, INTERVISTA VET33, LAMA

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