Animali da Compagnia
14 Aprile 2023 Non è sempre un percorso lineare. Tutt’altro. Quando ci si addentra nell’ambito dell’allergologia del cane e del gatto e si vuole risalire all'eziologia del prurito si rischia di dover affrontare un tortuoso dedalo.
“Buongiorno dottore, il mio cane/gatto si gratta, penso sia allergico”. Tutti noi veterinari ci siamo confrontati almeno una volta durante la nostra professione con una situazione simile e abbiamo dovuto iniziare a salire la lunga scala dell’iter diagnostico dell’animale con prurito, fatta di molti e, talvolta davvero frustranti, gradini e di complesse spiegazioni. E’ con brio che Roberta Perego, medico veterinario e professore associato all’Università degli Studi di Milano entra in medias res. Il tema? L’intricato labirinto dell’allergologia del cane e del gatto.
Dott. sa Perego, i proprietari si sbagliano parlando di allergie ai primi segni di prurito?
L’impressione dei proprietari non è del tutto errata: le patologie allergiche sono frequenti negli animali da compagnia, ma è difficile parlare di percentuali precise. Ad esempio, nel cane tradizionalmente si è sempre sostenuto che l’allergia alimentare – più correttamente reazione avversa al cibo (AFR) poiché non sempre sono coinvolti meccanismi immunologici - fosse un’entità totalmente separata dalla dermatite atopica (DA) di origine ambientale, ma clinicamente sovrapponibile, nella sua presentazione cutanea, a quest’ultima. Questa forma di AFR “pura”, i cui segni clinici sono controllabili mediante il solo cambio dietetico, è decisamente poco comune, probabilmente meno del 5% dei cani con problemi cutanei. In molti dei cani allergici si evidenzia invece AFR associata a AD: spesso in questi soggetti atopici gli allergeni alimentari innescano riacutizzazioni, o flare, della sintomatologia, cosa che ha portato a coniare nel tempo nuovi termini, quali dermatite atopica indotta da cibo (FIAD) e dermatite atopica canina sensu stricto (CADss) e a rendere la divisione tra AFR e AD nella specie canina decisamente sfumata e probabilmente in parte superata o da ridefinire.
Prurito uguale allergia quindi?
No, è sempre necessario tenere bene a mente che prurito non è sinonimo di allergia, poiché patologie spesso sotto- o mal- diagnosticate, come le ectoparassitosi o le infezioni batteriche o da lieviti, sono ben più comuni e devono essere sempre escluse con opportuni test diagnostici nell’animale che si gratta, mordicchia, lecca o strofina, anche perché spesso, parlando di infezioni cutanee, sono associate e complicano il quadro proprio delle dermatiti di origine allergica e, se non trattate, conducono a un sicuro insuccesso nella gestione del paziente.
Lo studio della dermatite atopica canina è sempre in continua evoluzione…
Negli ultimi decenni sono stati fatti notevoli progressi nella conoscenza della malattia, comprendendo che lo sviluppo della forma clinica che apprezziamo nel cane è il risultato di complesse interazioni ambientali e genetiche e che il ruolo delle IgE e dell’istamina nella patogenesi è solo la punta dell’iceberg: la barriera cutanea, ad esempio, sia in termini di disbiosi che di alterazioni strutturali, è ormai entrata a pieno diritto nei fattori da considerare. E questo ha portato a modificare anche l’approccio terapeutico, non più solo concentrato sul controllo del prurito, ma comprendente la restitutio ad integrum della barriera cutanea attraverso l’applicazione topica di svariate molecole. La terapia topica ha inoltre acquisito crescente importanza anche nel trattamento delle infezioni secondarie spesso associate alle dermatiti allergiche a causa del costante problema dell’antibioticoresistenza. L’approccio è quindi sempre più multimodale, proattivo - ovvero volto a prevenire i flare - variabile da soggetto a soggetto e, non dimentichiamolo, modificabile nel tempo, poiché anche i fattori scatenanti e complicanti possono variare con l’evolversi della patologia.
Possiamo parlare quindi di terapia personalizzata sul soggetto?
Assolutamente sì e i farmaci a disposizione non mancano, almeno nel cane. Considerando come base di partenza l’esclusione e/o il trattamento delle patologie parassitarie e delle infezioni cutanee con specifici farmaci, per la gestione del prurito e dell’infiammazione abbiamo diverse alternative: agli ormai quasi archiviati antistaminici, che non hanno confermato la loro efficacia aneddotica quando valutati in studi controllati, e ai tradizionali corticosteroidi topici e sistemici, molecole sempre efficaci, valide e indispensabili in alcuni casi, come ad esempio in soggetti affetti da grave otite, si sono affiancati negli anni gli inibitori della calcineurina, come la ciclosporina, il più recente oclacitinib e infine il lokivetmab, anticorpo monoclonale contro l’IL-31 specificatamente pensato per i soggetti atopici. A queste molecole si possono, e si devono, seguendo il concetto di malattia polifattoriale, affiancare altri principi attivi, dagli aliamidi agli acidi grassi, dai ceramidi agli sfingolipidi e probiotici, somministrati per via sistemica, spesso anche presenti in diete dedicate, o topica, tramite shampoo, emulsioni, spray. Infine, importante è ovviamente il ruolo dell’immunoterapia allergene specifica, ad oggi l’unico approccio in grado potenzialmente di modificare, diminuendola, la sensibilizzazione del soggetto.
E nel gatto?
In questa specie il fenomeno è stato decisamente meno studiato e la nomenclatura ultimamente è stata sottoposta a una rivisitazione: nel gatto, per descrive la complessa forma allergica caratterizzata da segni clinici e sintomi cutanei, gastroenterici e respiratori associata ad allergeni ambientali e alimentari si parla di sindrome atopica felina (FAS). Quando invece ci si riferisce alla sola patologia cutanea associata a produzione di IgE nei confronti di allergeni ambientali -prima conosciuta come “dermatite da ipersensibilità felina non associata a cibo e a pulci” – si usa la definizione di sindrome cutanea atopica felina (FASS).
Da cose dipende questa duplice terminologia?
Questa diversificazione rispetto al semplice termine “dermatite atopica felina” si è resa necessaria poiché, diversamente dal cane e dall’uomo, i gatti possono esibire forme cliniche differenti - ad esempio dermatite miliare, lezione del complesso del granuloma eosinofilico, prurito facciale e del collo, alopecia autoindotta - quando sensibilizzati a un allergene e inoltre il ruolo delle IgE nel gatto nello sviluppo dell’ipersensibilità agli allergeni ambientali non trova concorde tutta la letteratura. Anche l’aspetto terapeutico è più complesso e di più difficile gestione in quanto alcuni dei principi attivi, come ad esempio l’oclacitinib, non sono registrati per il gatto - anche se vi sono ormai evidenze scientifiche di efficacia -, gli studi sui risultati dell’immunoterapia sono pochi e la terapia topica è preclusa nella maggior parte dei soggetti. E si cercano quindi costantemente terapie alternative, come ad esempio il maropitant o il gabapentin, nelle forme caratterizzate da iperestesia.
Quadro complesso e in continuo mutamento, dunque. Che ne è delle vecchie regole diagnostiche? Valgono ancora?
Direi proprio di sì. Infatti, benché recentemente molta attenzione sia stata data all’individuazione di possibili biomarkers attendibili, con l’individuazione di alcune citochine, chemochine e interleuchine ematiche presenti maggiormente nei soggetti atopici canini e felini, tuttavia, siamo ancora lontani dalla piena comprensione del fenomeno e da un potenziale uso diagnostico, mancando studi su larga scala. Inoltre, in entrambe le specie, la sintomatologia dettata da allergeni alimentari rimane del tutto sovrapponibile a quella causata da allergeni ambientali non stagionali e nessuna manifestazione clinica può ritenersi patognomonica di uno o più specifici allergeni scatenanti. Per questo, il passaggio della dieta di privazione per 8 settimane e della successiva dieta di provocazione per escludere una componente alimentare è ancora oggi un tassello chiave, come pure quello di esclusione di ectoparassitosi e infezioni cutanee che nominavamo poc’anzi, spesso invece totalmente non considerate nella specie felina poiché storicamente ritenuta meno predisposta.
Nessuna speranza di scorciatoie?
Il percorso diagnostico negli animali da compagnia con sintomi compatibili con una patologia allergica rimane quello “per esclusione”. Molto recentemente è stato sviluppato un test sierologico di tipo molecolare per l’identificazione degli allergeni negli animali domestici, mutuato dalla medicina umana, che sembra esser in grado di individuare in modo più sensibile e accurato i reali allergeni coinvolti, ma, a proposito di ciò, mi preme ricordare che l’individuazione e il dosaggio delle IgE ematiche o il test di intradermoreazione nei confronti degli allergeni ambientali devono considerarsi sempre e solo come finalizzati alla formulazione dell’immunoterapia allergene specifica iniettabile o sublinguale o all’evitare l’esposizione del soggetto all’allergene quando possibile, non assolutamente come test diagnostici, concetto che spesso siamo chiamati a spiegare con cura ai proprietari che vengono in ambulatorio convinti che un semplice esame ematico sarà la soluzione ai problemi del loro animale.
Roberta Perego è medico veterinario e professore associato presso il Dipartimento di Medicina Veterinaria e Scienze animali (DIVAS) dell’Università degli Studi di Milano, dove presta opera di docenza per il corso di laurea magistrale a ciclo unico in Medicina Veterinaria e per la Scuola di Specializzazione in Patologia e Clinica degli Animali d’Affezione. Autrice di numerose pubblicazioni su riviste nazionali e internazionali, svolge da anni attività di ricerca e clinico assistenziale presso l’Ospedale Veterinario Universitario nel settore della medicina interna e in particolare della dermatologia del cane e del gatto. Un ulteriore suo abito di ricerca riguarda la medicina di laboratorio e la medicina trasfusionale del cane, del gatto (Laboratorio di Ricerca in Medicina Emotrasfusionale Veterinaria – REVLab) e degli animali non convenzionali (Laboratorio di Ricerca Emotrasfusionale Animali Selvatici ed Esotici - RESELab).
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